lunedì 10 dicembre 2018

“non può essere un caso che in nessuna lingua terrestre esista l'espressione "bello come un aeroporto". gli aeroporti sono brutti. alcuni sono molto brutti. certi raggiungono un livello di bruttezza che può solo essere il risultato di uno sforzo consapevole. la bruttezza degli aeroporti dipende dal fatto che sono pieni di gente stanca e di pessimo umore che ha appena scoperto che i propri bagagli sono sbarcati a murmansk (l'aeroporto di murmansk è l'unico che fa eccezione a questa regola altrimenti infallibile), e gli architetti per lo più si sono sforzati di riflettere questo stato d'animo nelle loro creazioni.”
(douglas adams, la lunga e oscura pausa caffè dell’anima)

c'è una cosa che devo confessare.
mi piacciono gli aeroporti, so mica perché.
certo mi piace molto volare, mi sembra che dia un punto di vista leggermente più obiettivo del pianeta.
c’è questa cosa, a otto km di altezza, che tutto viene messo in una prospettiva più reale, che da terra si fa fatica a capire: ad esempio che il pianeta è uno, che le frontiere non esistono (se non intese come ostacoli naturali tipo montagne molto alte o mari molto grandi), che homo sapiens è completamente insignificante nell’ordine delle cose e che l’unico prodotto apprezzabile di homo sapiens, da quell’altezza, sia il fatto che abbia la tendenza a raggrupparsi in aree molto ristrette e riempirle di lucine, credo nel tentativo di avere la flebile speranza di contare qualcosa (niente può essere poco importante, se ha una lucina, no?).
forse anche mi affascinano i non luoghi, e poi ovviamente mi piacciono i viaggi, sono sempre carichi di aspettative e novità e cose da scoprire, e anche gli aerei, trovo che sia una cosa fantastica che possano volare anche specie che non hanno avuto l’intelligenza di farsi spuntare le ali.
ma mi piacciono proprio anche gli aeroporti, in alcuni ci ho pure dormito.
mi piace arrivare con molto anticipo, specie in quelli che non conosco, anche in quelli piccoli, ed esplorare tutto il possibile (solitamente mi fermo prima che i responsabili della sicurezza mi trascinino in uno stanzino buio e mi picchino con dei grossi randelli: i responsabili della sicurezza sono sempre molto suscettibili. è uno dei motivi per cui spesso mi sento molto più sicuro quando non c’è la sicurezza), mi piace guardare fuori dalle finestre, che di solito sono enormissime, e se sei molto fortunato si vedono gli aerei atterrare e decollare, e le persone al lavoro, ed è pieno di macchinari interessanti, e poi dentro ci sono le poltroncine dove ti fermi a leggere e nessuno ti può disturbare, e in alcuni aeroporti ci sono un sacco di cose stranissime, tipo le sale giochi, o le poltrone appese ai soffitti, e niente, è bellissimo.
a volte mi fermo anche a curiosare nei negozi, ed è strano, perché solitamente io odio entrare nei negozi, anche quando mi serve qualcosa, tipo un paio di jeans, o un paio di scarpe da tennis (è tutto quello che compro, ultimamente), e insomma, è una cosa che solitamente mi mette molto in difficoltà (avete presente quando siete in un negozio ed entra uno strano, vestito male, con i capelli arruffati? molto gentile, ma visibilmente fuori luogo e in imbarazzo? ecco, con tutta probabilità sono io. non chiamate la sicurezza, grazie).
poi lo so, molte persone hanno paura di volare (in realtà non è vero che hanno paura di volare, hanno solo paura di morire; e in ogni caso volare non ha quasi mai ucciso nessuno, è atterrare male che può creare problemi alla salute), ma trovo che statisticamente prendere un aereo sia comunque molto meno pericoloso di altre cose, tipo guidare un’auto, usare delle armi da fuoco o affidarsi a un leader populista.
ma poi insomma, di qualcosa si deve pur morire.

lunedì 3 dicembre 2018

come passa il tempo, quando ci si diverte

All’inizio del novecento l’America era spesso uno shock per gli immigrati italiani che, secondo gli storici Leonard Dinnerstein e David M. Reimers, “erano impreparati all’accoglienza gelida loro riservata da moltissimi americani”.
Spesso, a causa della nazionalità, si ritrovavano esclusi dalle opportunità di lavoro e di istruzione, e non potevano stabilirsi in certi quartieri per via delle clausole restrittive che glielo vietavano. In alcuni casi, gli italiani che si trasferivano nel profondo Sud erano costretti a frequentare le scuole per neri. All’inizio non era assolutamente chiaro se fosse loro consentito l’uso delle fontanelle e dei bagni per i bianchi.
Altri gruppi di immigrati – greci, turchi, polacchi, ebrei di qualsiasi nazionalità – incontrarono ovviamente pregiudizi simili; quanto agli asiatici e ai neri americani, pregiudizi e limitazioni erano ancora più fantasiosi e crudeli. Gli italiani, però, erano generalmente trattati come una sorta di caso speciale, considerati più volubili, inaffidabili e molesti di qualsiasi altro gruppo etnico.
Ovunque sorgessero conflitti, sembrava che alla radice del problema vi fossero gli italiani. La percezione diffusa era che, se non erano fascisti o bolscevichi, fossero anarchici o comunisti, e se non erano nemmeno quello, si trovassero comunque implicati nel crimine organizzato.
Perfino il New York Times dichiarò in un editoriale che “forse [era] inutile pensare di civilizzare [gli italiani] o mantenerli disciplinati, se non avvalendosi del braccio della legge”. E.A. Ross, sociologo della University of Wisconsin, insisteva nel dire che in Italia la criminalità era diminuita solo perché “i delinquenti sono venuti tutti qui”.

L’estate che accadde tutto, Bill Bryson, Guanda