lunedì 3 dicembre 2018

come passa il tempo, quando ci si diverte

All’inizio del novecento l’America era spesso uno shock per gli immigrati italiani che, secondo gli storici Leonard Dinnerstein e David M. Reimers, “erano impreparati all’accoglienza gelida loro riservata da moltissimi americani”.
Spesso, a causa della nazionalità, si ritrovavano esclusi dalle opportunità di lavoro e di istruzione, e non potevano stabilirsi in certi quartieri per via delle clausole restrittive che glielo vietavano. In alcuni casi, gli italiani che si trasferivano nel profondo Sud erano costretti a frequentare le scuole per neri. All’inizio non era assolutamente chiaro se fosse loro consentito l’uso delle fontanelle e dei bagni per i bianchi.
Altri gruppi di immigrati – greci, turchi, polacchi, ebrei di qualsiasi nazionalità – incontrarono ovviamente pregiudizi simili; quanto agli asiatici e ai neri americani, pregiudizi e limitazioni erano ancora più fantasiosi e crudeli. Gli italiani, però, erano generalmente trattati come una sorta di caso speciale, considerati più volubili, inaffidabili e molesti di qualsiasi altro gruppo etnico.
Ovunque sorgessero conflitti, sembrava che alla radice del problema vi fossero gli italiani. La percezione diffusa era che, se non erano fascisti o bolscevichi, fossero anarchici o comunisti, e se non erano nemmeno quello, si trovassero comunque implicati nel crimine organizzato.
Perfino il New York Times dichiarò in un editoriale che “forse [era] inutile pensare di civilizzare [gli italiani] o mantenerli disciplinati, se non avvalendosi del braccio della legge”. E.A. Ross, sociologo della University of Wisconsin, insisteva nel dire che in Italia la criminalità era diminuita solo perché “i delinquenti sono venuti tutti qui”.

L’estate che accadde tutto, Bill Bryson, Guanda

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